Patrizia Musso
Per una nuova edizione di un dizionario anglosassone, è stato coniato un neologismo: il verbo to googleize (dal brand Google) per indicare l’attività di ricerca nel web. Una mossa che ha sicuramente […]
Per una nuova edizione di un dizionario anglosassone, è stato coniato un neologismo: il verbo to googleize (dal brand Google) per indicare l’attività di ricerca nel web. Una mossa che ha sicuramente dato scacco matto al primo noto motore di ricerca Yahoo!. Quali sono secondo lei le motivazioni che hanno reso possibile la nascita di un tale neologismo?
Sono varie le ragioni che hanno reso possibile la nascita di un tale neologismo: la prima, e fondamentale nel caso che stiamo considerando, è la capacità della lingua inglese di evolvere molto rapidamente integrando a livello linguistico ogni nuova tendenza di tipo economico-culturale (pensiamo al linguaggio SMS [1], che si è diffuso oltre il telefonino).
Il termine googleize illustra bene questo fenomeno, perché risulta sicuramente più breve usare il verbo to googleize piuttosto che “to use a search engine on the Internet”. Adesso, perché Google e non Yahoo!? Al di là di un fatto di notorietà , il termine google si presta sicuramente meglio ad una declinazione verbale. E questo non dà “scacco matto” a Yahoo!, anzi!
L’entrata di una marca nel dizionario, così come l’uso comune di una marca come parola generica sono un’arma a doppio taglio: esprime sì il riconoscimento della superiorità della marca rispetto alle concorrenti, però nello stesso tempo partecipa a banalizzare un’identità nata per essere unica ed univoca rispetto a ciò che indica.
L’attenzione del produttore dovrebbe quindi essere sempre rivolta a proteggere la marca da tale situazione.
Va segnalato tuttavia che questa informazione è da prendere con le dovute cautele: da una mia ricerca su Google (si tratta della marca!), sono emersi soltanto 5 citazioni della suddetta parola. Una breve verifica dai nostri colleghi inglesi e americani mi ha poi confermato che l’uso di questo verbo non è così diffuso.
Quanto i brand name entrati nel gergo comune (es. passami lo Scotch, dove hai messo la Biro) si sono rivelati un boomerang per l’immagine di marca anziché essere un vantaggio in termini di awareness?
Questa domanda sottolinea in modo chiaro lo stretto legame esistente tra logica di marketing e proprietà industriale: un brand name che entra nel linguaggio comune può significare per il proprietario la perdita totale dei suoi diritti di proprietà sul marchio.
Il caso più clamoroso in questi ultimi anni, è stato quello di Walkman Sony: in Austria ad esempio, la corte suprema ha deciso che la parola “walkman”, essendo ormai diventata un termine generico, sarebbe diventata la voce ufficiale per indicare il registratore portatile. Il risultato di questa decisione è che Sony ha perso i suoi diritti sul nome in Austria, non potendo più utilizzarlo in modo esclusivo.
Da un punto di vista più strategico, l’immagine di marca può soffrire di una tale situazione perché il brand name viene attribuito a qualsiasi produttore, e quindi a qualsiasi qualità di prodotto.
La genericità significa anche “vendere il competitor”: se ho deciso di comprarmi un registratore portatile andrò sicuramente a chiedere al venditore di presentarmi i walkman disponibili! Quante persone mi mostreranno soltanto Sony?
Entrare nel gergo comune potrebbe riassumersi in “essere vittima del proprio successo”. Quindi prudenza e sorveglianza sono da seguire per che questo non accada. Il brand name non deve essere aggettivato, ma essere sempre usato come un nome proprio seguito dal simbolo ®:
– la bevanda Coca-Cola®
– la crema Nutella®
– la penna Bic®
– il costume Bikini®
– il ristorante Autogrill®
– l’automobile Jeep®
– ecc!
Quando un prodotto crea una merceologia come nel caso di Walkman®, sarebbe forse opportuno lanciare il brand name accompagnato da un termine generico breve e facile da memorizzare.
Nell’attribuire un nuovo brand naming, quali sono secondo lei i trend emergenti per i brand globali?
Uno dei trend più salienti del brand naming in questi ultimi anni è la differenza sempre più sottile tra prodotto, servizio, società , ecc! Tutti oggi hanno bisogno di nomi unici, forti, riconoscibili e globali.
Un tempo lo sforzo di marketing e di comunicazione era centrato essenzialmente sul mondo dei prodotti stricto sensus, oggi l’insieme del mercato segue la logica del prodotto. Tutto è prodotto.
Per quello che riguarda più precisamente le tipologie di brand name emergenti, si possono segnalare le seguenti tendenze:
– composti da 2 o 3 sillabe
– connotativi-simbolici più che denotativi-descrittivi
– lessico inglese, latino/greco
Esempi di giovani nomi globali: Swiffer, Yaris, Aventis, Vivendi, Altria, Avantime, Wind, Orange…
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(1) Riportiamo di seguito alcuni esempi di SMS:
PCM: Please call me; Fwd: forward; RUOK: Are you OK?; BTDT: Been there, done that; GAL: Get a life; HHOJ: Ha, ha, only joking; BCNU: Be seeing you; F2T: Free to talk?; OTH: on the other hand; SWDYT: So what do you think?; XLNT: excellent; 2MORO: tomorrow; ATB: All the best.
A cura di Patrizia Musso, Founder & Director Brandforum, e Rebecca Rabozzi, Senior Editor, Brandforum.
La nuova linea cosmetica di Fidia Farmaceutici si chiama “Perfidia”, un brand naming inusuale che potrebbe essere frainteso dal target di riferimento.