Verso la contaminazione fra pubblicità sociale e commerciale: il caso HOPP
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Verso la contaminazione fra pubblicità sociale e commerciale: il caso HOPP
28/11/2014

Maria Angela Polesana, Docente Univ IULM di Milano, Guest di Brandforum.it
Una raccolta fondi per una Fondazione svedese che si batte per la ricerca contro il cancro infantile riprende il format di una campagna commerciale, con finale a sorpresa

Questa breve riflessione nasce dalla visione di uno spot virale, realizzato dall’agenzia di Stoccolma Garbergs, per raccogliere fondi per HOPP (The Human Oncology and Pathogenesis Program), una Fondazione svedese che si batte per la ricerca contro il cancro infantile.

Il video “riprende”, a fini umanitari, la campagna ambient realizzata da Apotek per promuovere la sua linea di prodotti per capelli Apolosophy. Nello specifico, la campagna per Apotek vede protagonista di un cartellone interattivo, situato in una stazione della metropolitana di Stoccolma, una modella i cui capelli si scompigliano, a causa delle folate d’aria determinate dal passaggio del treno, con conseguenti reazioni divertite dei passanti. Tale risultato viene ottenuto grazie a una tecnologia molto sofisticata, basata su sensori a ultrasuoni, in grado di percepire l’arrivo del treno e, in concomitanza, attivare il video.


Nella “nuova” versione per HOPP,  invece, alla giovanissima ragazza, protagonista del video, continuano a scompigliarsi i capelli all’arrivo del treno, come accadeva nella pubblicità per lo shampoo, finché a un certo punto il vento non le solleva la parrucca per lasciarle scoperta la testa calva. Il video si costruisce a partire proprio dal rimando esplicito allo spot originario, di cui viene “citato” anche un frame.  In sovraimpressione compaiono alcune scritte che spiegano la “svolta” sociale del “nuovo” video, ossia  “earlier this year a Swedish shampoo ad blew the world away. We used the same technique and made our own version to show the reality we face every day. Every day a child is diagnosed with cancer. Text “HOPP” to donate 50 kronor”. Lynn, 14 years”.


Si tratta dunque, chiaramente, di meta pubblicità, ossia di pubblicità che cita se stessa, ma la cosa sorprendente è la contaminazione dichiarata tra pubblicità sociale e pubblicità commerciale. Quest’ultima, in realtà, ormai sempre più spesso fa proprie anche  finalità sociali e  gli esempi in tal senso sono numerosi (da Yamamay impegnato  contro la violenza sulle donne a Pittarosso contro il cancro al seno, a Lete per la raccolta fondi a favore dei più poveri,  ecc.), più raramente invece la pubblicità sociale, soprattutto nel nostro Paese, attinge alla “cassetta degli attrezzi” di quella commerciale. Dimenticando che, di fatto, entrambe condividono la “natura retorica” nel senso che entrambe hanno quale fine primo la persuasione del proprio destinatario. Entrambe (nota 1) si costruiscono sui registri comunicativi dell’immagine, del suono, della parola scritta e detta, tutti usati in direzione di una “ipersignificazione che forza i limiti e gli usi consueti di ciascuno di questi codici ” (nota 2) al fine di comunicare nel modo più efficace, benché per due obiettivi completamente diversi. La pubblicità sociale pone infatti “maggiormente l’enfasi sulla proposizione di idee, di prodotti intangibili che afferiscono più al mondo dell’ideologia e dei sentimenti che a quello materico ”(nota 3). 


Se l’oggetto della pubblicità commerciale è il prodotto, nei cui confronti si impegna a creare goodwill, agendo sovente su una preesistente base di consenso o almeno di neutralità da parte del soggetto, la pubblicità sociale invece si muove su un terreno molto più pericoloso, scivoloso, fragile poiché promuove idee e valori, suggerisce comportamenti da seguire, che non sempre coincidono con le scelte del suo pubblico, o, viceversa, addita quelli da evitare. Insomma ha il compito di rimuovere un modo di “fare” o addirittura di pensare spesso da tempo consolidato, poiché ritenuto corretto o, semplicemente, “comodo”.


In particolare, in Italia la comunicazione sociale “è sempre stata avvolta da una nebbia di stereotipi e incomprensioni, per lo più è stata vissuta come una forma di riparazione verso la pubblicità cattiva, rea di avere scopi economici e commerciali ” (4).


Di qui la prevalenza di messaggi dal registro moralistico-doveristico,  o informativo-documentaristico, o responsabilizzante e paternalistico, insomma messaggi spesso poco impattanti, difficili da ricordare per la loro scarsa “riconoscibilità”. Colpevoli sovente di attivare quella che viene chiamata “rimozione difensiva”, soprattutto da parte dei giovani.  Ossia il rifiuto nei confronti di un messaggio che è dissonante rispetto a quelle che    sono le loro convinzioni o le loro abitudini. Del resto, lo si diceva sopra, il compito della pubblicità sociale è complesso. Tuttavia ciò non significa rinunciare in partenza ad essere “memorabile”. A suscitare l’attenzione del destinatario. A indurlo a guardarla.

Lo spot di HOPP ci è riuscito.  Citando la pubblicità commerciale ci ha ricordato che   la vita non è fatta solo di cose belle e piacevoli  ma anche, ahimé, di cose tristi e dolorose. La vita è bene e male. La nostra quotidianità comprende in sé tante dimensioni, fonti di gioia e di piacere o invece di dolore e sofferenza.


La campagna per HOPP fa propria questa visione coraggiosa e realistica della vita. Insinua nella nostra quotidianità il pensiero dell’altro, di chi soffre e lo fa in maniera empatica, commovente. I pendolari che assistono allo spot di HOPP inizialmente sorridono e poi, all’improvviso, diventano pensierosi, il loro sguardo esprime turbamento. Per un attimo irrompe nella loro vita l’immagine di chi ha bisogno di aiuto. La vita è gioia e dolore. Lynn, la ragazzina di 14 anni, che li guarda dal video trasmette loro una call to action che non sa di dovere, ma di pietas ossia di amore per l’altro da noi.


La pubblicità sociale può dunque praticare sentieri nuovi, diversi, in maniera efficace mobilitando la parte più emotiva dell’individuo. Lo shock prodotto dall’effetto di spiazzamento (tanto praticato, mi ripeto, dalla pubblicità commerciale) rispetto a un finale a sorpresa, come è quello del video in oggetto, induce a pensare a chi è colpito da questa terribile malattia. Costringe gli individui, che si espongono a questo messaggio, a riflettere, magari per un istante, ma sufficiente per  ricordare che a chiunque di noi potrebbe capitare.


Il successo virale del video testimonia dell’efficacia di un messaggio che spinge gli individui a compiere un’azione concreta, ovvero la condivisione del medesimo nel web, nei social network. Il che significa la volontà di far provare ad altri le proprie emozioni, di viverle con la comunità che si “frequenta” online.

Un successo enorme considerato che non si tratta di un video “piacevole”, ma di una testimonianza di dolore. Un’azione che moltiplica il valore del messaggio di HOPP e chiama in causa ciascuno di noi.

 

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Note

(1) Cfr. M.A.POLESANA, La pubblicità intelligente. L’uso dell’ironia in pubblicità, Milano, Franco Angeli, 2005.

(2) G. E. BUSSI PARMIGGIANI, L’arte bastarda. Analisi del linguaggio della pubblicità televisiva inglese, Bologna, Patron, 1998, p.31.

(3) G. FABRIS, La pubblicità. Teorie e Prassi, Milano, Franco Angeli, 1997, p.600.

(4) . CONTRI, "Prefazione",  in G. GADOTTI, R. BERNOCCHI, La pubblicità sociale. Maneggiare con cura, Roma, Carocci, 2010, p.9.

 

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Maria Angela Polesana , Ricercatore presso l'Università IULM di Milano insegna Consumi e cultura d'impresa (con Mauro Ferraresi) alla triennale in Relazioni pubbliche e comunicazione d'impresa e Strategia e politica delle aziende di marca alla laurea magistrale in Brand mangement (con Massimiliano Bruni).

 

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