Pro Logo o No Logo? Le marche come fattori di progresso
Pro Logo o No Logo? Le marche come fattori di progresso
Gerald Mazzalovo, Michel Chevalier
2003, FrancoAngeli

È appena uscito in Italia, presso la casa editrice Franco Angeli, la traduzione di un libro francese tutto a favore delle marche, intitolato Pro-logo.

Gli autori di questo volume sono Michel Chevalier (ex presidente della Johnson&Johnson e della Paco Rabanne) e Gérald Mazzalovo (ex presidente di Bally, Loewe e del reparto statunitense della Ferragamo). La loro lunga esperienza nel campo del brand management viene impiegata per analizzare i fattori positivi legati al mondo dei marchi.

Gli Autori sembrano quasi voler lanciare una sfida alla giornalista canadese Naomi Klein, autrice del noto No Logo, un testo che è stato recensito in tutti i paesi avanzati perché visto come un ricco reportage in cui si analizzano importanti aspetti dell’economia globale. Il lettore-consumatore a cui è dedicato il libro della Klein viene messo in guardia relativamente ai meccanismi di produzione dell’immaginario collettivo dei logo.

Ma l’attacco alla ‘filosofia del branding’ sferrato da Noami Klein non poteva restare senza risposta. Ha iniziato The Economist con la copertina del 8 settembre 2001 dove campeggiava il titolo ‘PRO LOGO – Why brands are good for you’ . Secondo il prestigioso settimanale britannico, i marchi altro non sono che dei segnali, degli indicatori, utili alle scelte dei consumatori costantemente alla ricerca della miglior qualità  al minor prezzo. Secondo l’Economist, i marchi così concepiti non sono altro che una mappa dell’esistente a totale beneficio dell’acquirente.

Anche il volume di Mazzalovo e Chevalier offre interessanti spunti per comprendere quale siano le caratteristiche positive delle marche contemporanee.

Abbiamo allora rivolto alcune domande a uno dei due Autori, Gerald Mazzalovo, che ci ha fornito alcune indicazioni su come i brand possano diventare dei veri e propri agenti del progresso sociale.

1) Pro logo: già  a partire dal titolo, il suo libro sembra essere un’esplicita risposta al volume di Naomi Klein ‘No logo’. E’ davvero così?

In parte.
L’uscita del libro di Naomi provocò la decisione di finire un lavoro già  avviato da qualche anno. “No Logo” ci diede l’impulso per concludere un testo che mancava nel settore delle marche, cioè uno che finalmente mettesse in evidenza anche gli effetti positivi delle marche nella nostra civilizzazione.
Non è una risposta a Naomi in quanto “Pro Logo” non è un libro politico. E’ stato scritto da gestori di marche che hanno riflettuto sul loro mestiere e sul ruolo sociologico di un brand e che hanno appoggiato tutte le loro affermazioni su esempi concreti.
Riconosciamo a Naomi contributi interessanti, come per esempio la parte sull’adolescente globale, però non condividiamo l’amalgama marca/capitale. Al contrario proponiamo di uscire da questa contrapposizione obsoleta della marca contro il consumatore. Pensiamo che sia arrivato il momento di una rivalutazione delle attività  commerciali in generale e che tutti gli attori coinvolti nelle transazioni condividono responsabilità  nel ridare le loro “lettres de noblesse” al consumo.

2) E’ recente la notizia della catena inglese di prodotti per bambini che ha dipinto messaggi pubblicitari sulla pancia delle gestanti. Naomi Klein leggerebbe questo fenomeno come esito della crescente disseminazione sociale dei brand. Ha quindi ragione l’autrice americana: siamo destinati a una brandizzazione totale?

Si.
Però non è un fenomeno nuovo. E’ la natura essenziale dell’uomo di pensare e comunicare per simboli. Ciascuno di noi riceve un nome alla nascita. Il fenomeno delle marche procede dagli stessi fabbisogni di differenziazione, di riconoscimento e di sviluppo nella durata. Sono i progressi delle tecnologie di fabbricazione, distribuzione e di comunicazione che rendono le marche più presenti oggi rispetto a 50 anni fa.

3) Nel suo volume lei pone particolare attenzione al tema della dimensione etica. Molte sono le aziende che dichiarano la loro responsabilità  sociale nei confronti dei consumatori; ma concretamente poi si sviluppano queste dichiarazioni d’intenti?

E’ vero che da qualche anno molte marche utilizzano nella loro comunicazione temi etici. E un modo di rispondere ad un maggiore sensibilità  della gente ai temi di solidarietà  sociale e di protezione dell’ambiente. E un altro esempio del potere del consumatore di cui si parla nel capitolo 8 del nostro volume.
Un esempio edificante fu quello della marca di sigarette spagnola Fortuna che fece scandalo nel 98 con la sua campagna “Adesso con Fortuna, tu dai 0,7% a una ONG”. Purtroppo al momento del lancio della campagna, non c’era ancora nessun accordo formalizzato con una ONG ed il comitato dei 5 saggi che doveva operare una selezione non era ancora costituito. Fu una levata di scudi in Spagna coinvolgendo stampa, organi di governo e pubblico fino a quando il sistema di distribuzione dei 0,7% fu costituito.
E’ difficile, e molto pericoloso, nel nostro mondo mediatizzato e globalizzato nascondere o mentire a lungo. Poche marche serie o globali rischierebbero di ingannare il pubblico.
Si potrebbe comunque menzionare anche tutte le marche coinvolte in azioni di solidarietà  che non l’utilizzano a scopo comunicativo come per esempio l’impegno di Avon contro il cancro o di L’Oreal nella promozione delle donne nel settore della scienza.

www.pro-logo.com

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