Marketing e Employer Branding:  Il Caso di Mc  Donald’s per L’Italia
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Marketing e Employer Branding: Il Caso di Mc Donald’s per L’Italia
18/01/2013

Andrea Rizzo, Redattore Junior, Brandforum.it
La nota catena di fast food lancia uno spot a metà strada fra logiche di marketing e di Employer Branding. Un video che scatena polemiche e dissensi, ma che soprattutto fa riflettere. Aspettiamo anche i vostri commenti.

1. Crisi e identità: un’introduzione

Il 2012 verrà da molti, se non troppi, ricordato come l’anno “bisesto” più funesto, paremiologicamente parlando.


La crisi speculativa dei mercati, che ha spinto l’Italia sull’orlo del baratro, ha, a sua volta, portato i brand a fare i conti con un inevitabile crollo dei consumi e una patente disillusione degli stessi consumatori.


Tuttavia, se è vero che l’ideogramma cinese racchiude in sé le parole pericolo e opportunità, esistono casi di aziende virtuose che hanno lavorato sulle cosiddette “favourable junctures of circumstances“ implementando nuove e, talvolta, radicali strategie volte alla valorizzazione del proprio capitale di intangible assets che, nella fattispecie della presente disamina, coinciderebbero con quella porzione di business model chiamato value proposition.

 

Distruggere e ricostruire il proprio modello di business, a detta degli autori Dotlich, Cairo e Rhinesmith (Dotlich:2009) garantirebbe la possibilità di rimanere competitivi sul mercato per mezzo di una ritrovata coesione con i veri wants del consumatore e una migliore linearità con le nuove coordinate dell’arena di business.


In breve, si fa riferimento a un brand reloading che agisca contemporaneamente sul fronte umano e sociale del consumatore, senza dimenticare gli aspetti più meramente economici. Si potrebbe quasi sostenere che la creazione di valori starebbe nella commistione di entrambi i fronti nella direzione di quella che Emerson chiama blended value proposition (Emerson:2003).

 

 

2. Fare marketing con le risorse umane: un blended approach


Marketing Human Resources è un’espressione che sempre più prende piede nella letteratura economica. Un progetto per nulla dozzinale che porta in sé l’idea di coniugare i valori del lavoratore, e ad un livello più superiore, del lavoro stesso, con quelli del corporate e del product brand.


Si tratta di un blended approach per mezzo del quale si veicolano più valori allo stesso tempo e, in cui, si riserva grande spazio a una figura da retroscena, il lavoratore, che per l’occasione si dota di poteri di ambasciatore comunicante e/o comunicato.  In tale direzione, tra marketing e risorse umane, s’instaura una vera e propria partnership atta a sortire benefici totalizzanti che trova legittimazione nelle parole di Ruch (Nazemetz, Ruch : 2012):


“[…]Put the two together (HR and Marketing) and you’ve got a formidable force that works to the advantage of both – not to mention the company as a whole”.

 


 

3. Lavor-autore e Lavor-attore: oltre l’external branding


Le figure del lavor-autore e lavor-attore rappresentano due delle pratiche principali in cui si realizza il famoso patto di collaborazione tra il fronte delle risorse umane e quello del marketing. Come afferma Daloisio, in un articolo dal nome molto significante – Building your brand from the inside out (v. http://www.brandchannel.com/brand_speak.asp?bs_id=221)- i due dipartimenti diventano dei reali best friends facilitando, dunque, un brand management che riposi sull’assetto valoriale del lavoratore.

Esempi pratici di quanto detto sono la serie di spot di Banca Intesa (lavor-attore) o la crescente presenza di blog aziendali (lavor-autore), che trovano una chiara realizzazione nei modelli di storytelling dell’azienda IBM di cui abbiamo già avuto modo di parlare (vedi: http://www.brandforum.it/papers/759/raccontare-e-raccontarsi-lo-storytelling-nella-comunicazione-d-impresa-contemporanea).


Le predette testualità, tuttavia, sebbene rispettino in gran parte il legame “societario” tra marketing e risorse umane, si pongono prettamente in una prospettiva di external e non di employer branding, il che implicherebbe l’implementazione di dinamiche di ordine più complesso proprio come sembra essere avvenuto con la recente campagna di Mc Donald’s che ora analizzeremo.

 


 

4. Employer e External Branding: Il caso di Mc Donald’s Italia


Quando si parla di Mc Donald’s, si fa spesso riferimento a pratiche di branding dal carattere poco convenzionale. Sono molteplici gli esempi in termini di above e below the line, che rappresentano vere e proprie riletture della comunicazione del brand.


Solo quest’estate sul web veniva diffusa una campagna che vedeva la presenza di una serie di lavoratori della catena di fast-food alle prese con una canzone interamente registrata da loro – The Ice Cream Song (v. http://www.youtube.com/watch?v=QW8iKgcEwks)  – che si poneva lo scopo di promuovere delle coppette di gelato Seletti, gift alla cassa per l’acquisto di un Mc Menu gelato. Un’evidente rivisitazione del ruolo del lavoratore che, dismessi i panni del prestatore di lavoro funge da attore e autore al servizio del brand.


A distanza di qualche mese, il colosso americano tenta di bissare l’esperimento del 2012 con una campagna multi-piattaforma (cfr. https://www.youtube.com/watch?v=NzChOex6er0). Firmato dal pluripremiato regista italiano, Gabriele Salvatores, lo spot illustra i vari ruoli dei propri lavoratori nell’ambito di un ristorante in cui ognuno è presentato in modo chiaro e trasparente, secondo una modalità che acuirebbe la credibilità dell’enunciato.

Nella sua interezza il filmato, editato secondo il canale di trasmissione, è guidato da una voce fuoricampo che supporta lo spessore iconico dei personaggi. La descrizione di semplici policy aziendali, in campo di recruitment e retention, accompagnano lo spettatore nella costruzione, talvolta euristica e agiografica bisogna ammetterlo, di giudizi sulla natura virtuosa dell’azienda.

Si parla di stipendi puntuali, di contratti a tempo indeterminato e di possibilità di carriera direttiva a soli 27 anni, il tutto con la consapevolezza che il lavoro sia duro, faticoso e che richieda l’impegno a svolgere mansioni quali l’entrata merci, il servizio cassa e, perché no, friggere le patatine.


È ben chiaro, qui le dinamiche sono di più largo respiro, rispetto al primo caso citato. Non si promuove un panino, un gelato o uno specifico prodotto, bensì un corporate brand. Anzi, ad una non così attenta seconda rilettura, il focus sembra posizionarsi addirittura sul brand come datore di lavoro a tal punto da considerarsi come un espediente ibrido tra Employer  e External Branding.


Assumiamo che si tratti d’ibridazione di genere per una serie di motivi che ci portano a riflettere sulla polivalenza del discorso comunicativo insito nella campagna italiana. Prima di tutto, il target cui si rivolge lo spot non coincide con un’unica audience, ma con una pluralità di soggetti, dal job-seeker (forse non tanto choosy) al semplice consumatore, passando, ovviamente per i potenziali prospects. Ciò fa sì che la campagna si declini in diverse forme. Esistono annunci a stampa, spot televisivi e tematizzazioni nella sezione “Lavora con noi” che rendono, dunque, il progetto un efficiente esempio di “testo espanso” (Carini:2009) in termini mediali e, anche, di senso.

In secondo luogo, i valori trasmessi sembrerebbero convergere tutti in un’unica e riconciliante prospettiva di marketing 3.0 atta a veicolare messaggi pragmatici d’impegno sociale o, come afferma Cosenza (vedi  http://giovannacosenza.wordpress.com/2013/01/07/mcdonalds-fa-crisis-washing-offrendo-3000-posti-di-lavoro/), di “crisis washing” che, per l’appunto, rendono la classificazione generica della campagna poco rilevante. Il fine è quello di fornire un’immagine virtuosa al contempo di brand e best employer senza privilegiare un fronte piuttosto che un altro.

 

 

 

5. Riflessioni conclusive


Ci siamo molto spesso occupati di Mc Donald’s (cfr. http://brandforum.it/papers/844/strategie-e-marketing-3-0-il-caso-mcdonald-s-uk-e-italia). Lo abbiamo fatto perché, a prescindere dai giudizi che ne derivano, la catena di fast-food più famosa al mondo sembra aver adottato in modo estensivo ed intensivo un approccio comunicativo e di marketing sempre più composito nei confronti del consumatore e del rapporto che questi instaura a sua volta con il brand.


A coloro che considerano quest’ultimo progetto comunicativo come una ricerca di una nuova immagine, un restyling ad hoc o, ancor più, un triste espediente di retorica ampollosa, sfugge forse il trascorso aziendale di Mc Donald’s che da qualche anno a questa parte si va sempre più arricchendo di strategie e programmi in perfetta linea con la recente campagna.

Come ricordavamo nel precedente paragrafo, si va delineando un ricorrente leit motif di impegno sociale, societario e culturale: un marketing del senso, del valore, della missione.

Che si tratti di un chiaro allineamento alle richieste di Kotler, che riportava Morales qualche giorno fa (vedi http://www.brandforum.it/papers/1103/marketing-3-0-parola-di-philip-kotler)?

 

 

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