La nuova brand identity del food è bio
Brand Trends
La nuova brand identity del food è bio
02/10/2014

Francesca Mastrovito, Network di Brandforum.it
Nel settore del food la cultura bio oltre ad essere il trend del momento diventa anche parte integrante dei core values dei brand.

Premessa
Pare che quei famosi quindici minuti, tanto cari a Andy Warhol, non siano sufficienti a contenere la celebrità di cui sta godendo il settore dell’enogastronomia –o, detto in termini più attuali, il mondo del food. Che sia il risultato delle luci della ribalta offerte da questo improvviso boom mediatico fatto di programmi tv, palinsesti dedicati, blog, siti e forum, è indubbio: tutti si improvvisano chef, anche chi non ha mai armeggiato con una padella in vita sua.

 

Tale ondata fa si che non vi sia un crescente interesse esclusivamente in campo culinario, ma anche in settori collaterali (e complementari) come l’autoproduzione, la nutrizione e la medicina stessa; nuove tendenze alimentari, divergenti da quella tradizionale della regione o del Paese di appartenenza, prendono piede a velocità disarmante: dalle scelte etiche della dieta vegetariana o vegana a quelle di tipo salutare della dieta macrobiotica, c’è solo l’imbarazzo della scelta.

 

Ne conseguono quindi due situazioni: la prima, è lo stesso “sovraffollamento” riflesso sui prodotti alimentari, che si moltiplicano in maniera esponenziale  a colpi dei più svariati piani di marketing, nel tentativo estremo di accaparrarsi l’ultimo consumatore a discapito del brand concorrente; la seconda, è una crescita di interesse nei confronti di questi stessi prodotti. Ciò che si è sviluppato, in sostanza, è una consumer awareness: il consumatore diventa sempre più consapevole, e perciò attivo; sa riconoscere cosa è sano da cosa non lo è, legge l’etichetta, si lascia guidare da quelli che potremmo definire veri e propri influencer del settore –come sopra: nutrizionisti, blogger e opinionisti.

 


Se incrociamo questo tipo di attenzione (risultante anche dalla diffusione della cultura alimentare orientale –il cibo come medicina- e dall’insorgere dilagante di allergie e intolleranze) con quella dedicata al pianeta, all’ecologia e all’impatto ambientale, non poteva che risultare una sola tendenza nel mondo del food: quella del biologico.

 

Più che una moda, il bio è concepito piuttosto come parte integrante (o trainante) dei core values di un brand, seguito a ruota da concetti, principi e pratiche come l’eco-sostenibilità, il km0 (quando possibile) e in certi casi anche l’autoproduzione. Essendo comunque una tematica molto densa di per sé, a volte il biologico diventa esso stesso il brand.

 

Non saremo qui a disquisire sul vero significato del concetto –o del label- di biologico, la sua reale applicazione, la coerenza dell’approccio eccetera. Non è la sede giusta. Quel che cercheremo di fornire è innanzitutto una definizione lineare del concetto stesso, il suo posizionamento e il suo target di riferimento, per poi passare a una visione d’insieme di come i brand sfruttino il biologico a favore della loro identity e lo mettano a servizio della loro strategia marketing. Nello specifico, prenderemo in considerazione i casi delle catene italiane di supermercati Esselunga e Naturasì e della catena britannica Waitrose.

 

Cos’è il biologico
Per produzione biologica intendiamo l’impiego di tecniche attente alla salvaguardia  dei cicli  naturali e della biodiversità che escludono l’utilizzo di prodotti chimici (insetticidi, diserbanti, fertilizzanti).

 

Nello specifico delle produzioni agricole, si opta per un metodo di tipo estensivo capace di integrarsi in modo compatibile nei processi naturali, attraverso lavorazioni artificiali minimizzate il più possibile, l’impiego di materiale organico come fertilizzante e la rotazione delle colture, che permette di evitare lo sfruttamento intensivo del suolo a favore di un ripristino naturale della fertilità.  Nell’allevamento, invece, gli animali crescono seguendo il loro naturale ciclo vitale: l’utilizzo di antibiotici, acceleratori della crescita e droghe in genere è del tutto bandito (nel caso di malattie, l’animale viene curato con rimedi omeopatici); è chiaro, quindi, che la stessa alimentazione deve essere di origine biologica.

 

Il bio-consumer
Quel che ne consegue, è la presentazione del prodotto finale a prezzi abbastanza elevati, sensibilmente più alti rispetto a quanto siamo abituati a spendere per prodotti non provenienti da agricoltura biologica. Le ragioni sono molteplici, non riducibili alla sola risposta “perché è biologico”: innanzitutto, le tecniche meno invasive sono molto più impegnative e hanno bisogno di una costante attenzione e salvaguardia, quindi è richiesto maggior lavoro da parte dell’uomo; ancora, il rispetto della naturale crescita e sviluppo, senza “acceleratori chimici”, necessita inevitabilmente di più tempo, il che induce ad avere meno prodotti biologici nello stesso arco di tempo in cui prodotti non biologici sarebbero pronti a essere messi in commercio.

 

Questa discriminante si ripercuote inevitabilmente sui consumatori, andandosi a delineare come una vera e propria discriminante tra un target alto e uno medio-basso, abbastanza comune (come poi noteremo nel caso inglese del Waitrose, anche la scelta dei prodotti al supermercato e del supermercato stesso costituiscono una legittimazione dello status sociale, in un Paese monarchico in cui vige ancora un forte classismo). Il biologico diventa quindi concettualizzato –quasi, stigmatizzato- come “cibo per ricchi”, indicatore di portafoglio gonfio e palato raffinato.


A dirla tutta, il bio vive da sempre una sorta di sdoppiamento molto discordante e contraddittorio in termini di brand identity: se da una parte, come abbiamo detto, è associato a una fascia alta, ricca e borghese di consumatori, dall’altra rimane permeata a quel gruppo sociale che simpaticamente definiremmo “fricchettona”, quelle persone, cioè, che optano per la scelta del biologico in termini di rispetto dell’ambiente e di armonia con la natura;  insomma, tutti quei reduci della cultura hippy, molto spesso vegetariani e vegani, cultori della medicina naturale e della cultura orientale.

 

Per quanto possano esistere dei super-manager con i dreadlock e occhialini tondi, la cultura hippy è comunque emblema di semplicità estrema, a volte ingaggiata nella lotta anticapitalista, comunque discordante dall’immagine borghese a cui abbiamo fatto riferimento nel paragrafo precedente. Ne risultano quindi due facce del biologico –o del consumer bio- apparentemente inconciliabili.

 

Supermercati più o meno bio
Le catene alimentari si regolano di conseguenza, e in base a quanto questa tendenza risulti redditizia, o quanto sia affine ai core values del brand stesso, decidono di inserire prodotti biologici nelle loro linee, ma in misura diversa. Se mettiamo a confronto, per esempio, Esselunga con Naturasì, vediamo da subito quanto abbia pesato sull’identità stessa dei supermercati la scommessa sul biologico.

 

Ma per una migliore visione d’insieme sull’argomento, abbiamo deciso di prendere in considerazione anche una catena estera, nello specifico, il Waitrose, per capire i risvolti di questa tendenza anche fuori dall’Italia –per quanto, sia chiaro, rimane un paragone abbastanza circostanziale e indicativo, considerando che il Waitrose è presente solo in Inghilterra. Ovviamente, la percezione del biologico può divergere –e di fatto diverge- da Paese a Paese.

 


Il caso Esselunga
Esselunga, la nota catena di supermercati e ipermercati nel Nord e Centro Italia nata a fine degli anni ‘50, ha introdotto la linea di prodotti a marchio Esselunga Bio nel 1999: non ha, cioè, messo in vendita prodotti di brand biologici, ma ha preferito introdurne una propria, riconoscibile dal logo in cui è raffigurato un sole giallo e arancione su sfondo azzurro.

 

Nei supermercati non esiste un settore dedicato: i prodotti biologici si trovano affiancati, o meglio, si affiancano, alla loro alternativa ordinaria non-bio. A oggi, la linea conta circa 250 prodotti biologici nell’assortimento, tutti provenienti da aziende produttrici che “oltre a soddisfare i requisiti giuridici, devono soddisfare anche quelli più specifici richiesti da Esselunga”.

 

L’effettiva natura biologica del prodotto è garantita dal brand attraverso visite ispettive sul campo e analisi di laboratorio mosse dalla stessa costanza con cui Esselunga vuole dimostrare la propria bio-awareness ai consumatori. Quel che ne consegue è un inglobamento del concetto di biologico nell’identità Esselunga, ma non come value trainante: di fatti, il marchio Esselunga Bio si affianca ad altri, come Esselunga Top, linea di prodotti ad alta qualità, e la più recente Esselunga Equilibrio, linea di prodotti dietetici.

 

Quella biologica, in sostanza, non è una scelta che si impone come un’identificazione totale del brand in essa: piuttosto, è una delle tante opzioni messe a disposizione del consumatore, libero di poter scegliere cosa portare a casa e soprattutto quanto spendere.


Il caso Naturasì
Completamente diverso l’approccio della catena Naturasì, che a oggi conta più di  120 supermercati sparsi in tutta Italia (meridione compreso). La prima presentazione al pubblico lascia già intendere la completa identificazione del brand con il mondo del biologico: Naturasì infatti è “il supermercato bio”.

 

Ogni store, insomma, si propone come raccoglitore di tutte le maggiori marche di prodotti biologici, e non solo in campo alimentare: dalle farine ai prodotti per la casa, passando per le creme per la pelle, Naturasì replica (anche per disposizione) un classico supermercato, ma in cui non c’è bisogno di una particolare attenzione per distinguere, tra tutti i prodotti, quelli biologici; semplicemente, è tutto bio.

 

Il concept stesso dello store e del logo lancia chiari rimandi al mondo naturale: le tinte dominanti sono il verde e il giallo, quando possibile gli scaffali sono in legno e vengono utilizzate delle ceste di vimini per il reparto ortofrutta. Il biologico, infatti, è il value trainante, ma non è il solo: a fare da corollario ci sono anche l’ecologico e  il biodinamico.

 

Per quanto vi sia una certa promozione della filiera corta e del km0, non è possibile inserire questi valori come costituenti dell’identity di Naturasì, dal momento che, a parte per alcuni prodotti ortofrutticoli, ve ne sono molti d’importazione estera che difficilmente sono reperibili o comunque riproducibili in Italia, come per esempio tutta la linea di prodotti giapponesi per alimentazione macrobiotica –alghe essiccate, miso, umeboshi…

 

L’aim di Naturasì, comunque, è quella di far vivere al consumatore un’esperienza bio a tutto tondo, non soltanto per l’assortimento dei prodotti proposti che non si relegano soltanto in cucina, ma anche per i servizi offerti: spesa online, consegna a domicilio, applicazione per smartphone, piccola gastronomia, ricettari, fidelizzazione del cliente tramite raccolta punti e carta fedeltà, promozioni per avvicinare le famiglie alla spesa bio.. Naturasì non vuole offrire il biologico come una delle tante opzioni disponibili, ma vuole imporsi come LA vera (e possibile) alternativa biologica.

 


Il caso Waitrose
Il posizionamento della catena di supermercati Waitrose è già emblematico di per sé: in una Inghilterra dove anche il supermercato può determinare l’appartenenza di classe (intesa come upper, medium e lower class), la scelta di evitare promozioni da discount, di mantenere un certo stile nell’allestimento degli stores, di offrire maggiori e migliori servizi (oltre a garantire una migliore qualità in generale), quello dell’inserimento di prodotti biologici (di prezzo generalmente più elevato) è un passaggio d’obbligo.

 

Lontano dalle realtà più economiche di Tesco e Asda, Waitrose va a posizionarsi piuttosto al fianco dell’altra celeberrima catena di supermercati Marks & Spencer.

 

Anche in questo caso, come quello di Esselunga, il biologico non è il perno attorno cui virano tutti gli altri brand values, ma è comunque presente per offrire una maggiore scelta e avvicinarsi il più possibile a quel consumatore responsabile e consapevole di cui abbiamo parlato. Ma ciò che rende speciale l’approccio del brand al biologico è che questo non va portato avanti da solo, anzi, va a braccetto con un’altra tematica che in Inghilterra ha molto più rilievo che in Italia: la filiera corta e i prodotti del territorio.

 

Waitrose scrive chiaramente sulle confezioni la provenienza dei prodotti, e lo fa con tutto l’orgoglio britannico possibile. Grazie infatti alla Duchy originals from Waitrose, gli oltre 1600 prodotti biologici in assortimento permettono al consumatore di fare una scelta due volte etica: perché biologica, ma anche perché attenta a preservare il patrimonio enogastronomico locale. Il packaging, in questo caso, è molto indicativo: oltre al classico bollino verde che indica la provenienza bio, ne è sempre presente un altro riportante la Union Jack. Come per dire: biologico è buono, ma biologico e inglese è meglio.

 

Conclusione

Nonostante questo tipo di cultura stia diventando –anzi, è diventato uno dei trend del momento, risulta ancora fortemente ancorata alla realtà di pochi gruppi sociali, e (non solo per questioni di prezzo) non è facile prevedere il suo impatto ma soprattutto la sua durata su larga scala.

 

La scelta di seguire più l’etica o il portafoglio risulta ancora a esclusivo appannaggio del consumatore; sta al brand convincerlo della scelta migliore, anche e soprattutto in questo periodo di crisi, quando spesso sono i conti in tasca a guidare la logica di spesa.  Certo, tra tutte le mode bizzarre che spopolano, questa è certamente la più sana e (nei termini del possibile) etica. Non possiamo che sperare in una sua espansione sia in termini di mercato che in termini di tempo.

 

 

Francesca Mastrovito, Laureata in Scienze Linguistiche presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi su Massimo Bottura, frequenta ora il master in Food & Wine Communication di IULM e Gambero Rosso. E’ attiva nel mondo del food nelle sue molteplici declinazioni – social, content editing, web editing, organizzazione di eventi.
 

 

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