Selfie, parola di Io
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Selfie, parola di Io
27/03/2014

Paolo Parigi, Copywriter, Guest di Brandforum
L’autoscatto al tempo dei social diventa selfie, nuova parola rituale. Quali le differenze con gli storici autoritratti del mondo dell’arte?

Ringraziamo Paolo Parigi e il sito "Un posto al copy" per la gentile concessione alla ripubblicazione del pezzo.

 

Dal titolo di questo pezzo non potevate non aspettarvi un gioco di parole. Se riesco a riempire il carrello del supermercato è anche grazie alla confidenza con un linguaggio che rimodella i modi di dire e gli stereotipi linguistici. Che poi in questo caso io abbia scelto di lambire le alte sfere non è casuale. Oggi infatti il nostro dio è l’io. Lo dimostrano le tonnellate di autoscatti caricate nei social ogni giorno, ora, minuto.

 

La nuova definizione data a questo fenomeno di onanismo fotografico è appunto selfie. Il termine dell’anno appena archiviato è lui. Lo hanno decretato i redattori di The Oxford Dictionaries, tipi che sanno quel che fanno quando si tratta di parole, al sapere sconfinato dei quali si aggiunge l’intelligenza artificiale di algoritmi sguinzagliati a calcolare la frequenza con cui compaiono in rete determinate espressioni.

 

Autoscatto doveva essere rottamato. Suona vecchio, sa di esibizionismo da rotocalchi nascosti sotto il letto; odora di carta intrisa di umori trovata nei campetti di periferia. Selfie invece parla di Instagram, l’album condiviso delle Polaroid su cui non puoi lasciare le impronte dei polpastrelli; racconta di Facebook, lo specchio del nostro ego collettivo e delle legittime brame di Zuckerberg.

 

Selfie è carino,  giovane, immediato: ha tutto quello che piace alla rete. Inutile dire che non potremo  più farne a meno. Chi non lo userà resterà fuori dai giochi, a maggior ragione chi scrive per mestiere. Gli autoscatti dovremo chiamarli così, compresi quelli che stridono con questo vezzeggiativo da teenager iperconnessi: mi viene in mente chi si è fotografato scegliendo come sfondo il relitto di una nave da crociera naufragata pochi giorni prima, balena d’acciaio in agonia in un mare ancora percorso dall’ultimo respiro delle vittime.

 

L’autoritratto non è una novità. Penso ai tanti eseguiti da Vincent Van Gogh, che non credo pazzo, bensì tormentato e tenace autore di se stesso. Oppure alla tavola in cui Albrecht Dürer si rappresenta nella posizione tradizionale del Cristo, conservata all’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera. O alla tela che Francis Bacon dedica a un se stesso deformato ma straordinariamente vero, esposta al Musée National d’Art Moderne di Parigi. O ancora al dipinto del Louvre in cui il Tintoretto raffigura la vecchiaia del proprio volto facendolo emergere vivido e spettrale dall’oscurità, metafora, forse, di uno spegnersi dell’esistenza terrena percepito ormai vicino.

 

L’autoritratto però non è semplicemente uno specchio su cui riflettere la propria immagine, ma un mezzo per penetrare se stessi e restituire allo sguardo ciò che normalmente di sé non si vede: che sia di Robert Mapplethorpe o di Rembrandt il self portrait è indagine. Il selfie invece è reportage di un culto dell’io celebrato per inerzia, appeso a un istante che un attimo dopo avrà già perduto la sua ragione d’essere, da consumare subito perché poi verrà rapidamente inghiottito dai buchi neri del cosmo digitale.

 

Sia chiaro comunque che non intendo ergermi a censore. Mi fotografo e mi posto anch’io. La vanità 2.0 e il flusso di coscienza social a volte coincidono. Se siamo qui è perché vogliamo degli spettatori, negarlo sarebbe ipocrita. Il punto – essendo nato esattamente al centro degli anni sessanta – è che non potrò non sentirmi  un po’ giudicato dalle mie rughe quando prima o poi dirò: “Adesso mi faccio un selfie e lo metto su Instagram”.

 

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Paolo Parigi. Nasco nel 1965. Ma è avvenuto allora, non ora. Lo sottolineo perché non ho grande simpatia per il presente storico. Nelle poche righe che seguono coniugherò quindi i verbi in chiave vintage. A tre anni dicevo "svuota" anziché "ruota" e "chilurgo" al posto di "chirurgo". Fu subito chiaro che non avrei potuto fare il meccanico e nemmeno il medico. Non si spiega invece, avendo esordito nel mondo dei parlanti storpiando le parole, come io sia finito a guadagnarmi da vivere con esse. Di parole ne ho scritte parecchie. Non poche per analizzare opere d'arte. Alcune per recensire pubblicazioni. Moltissime per pubblicizzare prodotti e servizi. Il mio desiderio è scriverne ancora, continuando a far convivere l'attività di comunicatore con la passione per la musica e l'interesse per la storia delle arti visive. Finora – ringraziando i numi – sono riuscito a farlo.

 

 

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